
La Cassazione inaugura un nuovo paradigma nella giurisprudenza penale-tributaria, ammettendo la confiscabilità della "prima casa" dell'indagato quando essa rappresenti, anche solo per equivalente, il valore del profitto del reato tributario
Il mito dell'intangibilità della "prima casa" si infrange oggi contro la linea di rigore impressa dalla giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità patrimoniale derivante da reati economico-tributari. La sentenza n. 34484/2025 della Terza Sezione penale della Corte di Cassazione segna un passaggio epocale, aprendo esplicitamente alla possibilità di sottoporre a sequestro preventivo e confisca per equivalente l'immobile adibito a residenza familiare dell'indagato, qualora esso corrisponda al valore del profitto del reato.
La decisione, destinata a incidere in profondità sul rapporto tra tutela abitativa e potestà punitiva dello Stato, dissolve l'antico equivoco interpretativo che aveva finora assimilato le garanzie esecutive di natura tributaria alle immunità di carattere penale, riconducendo invece la confisca alla sua autentica dimensione di misura ablatoria avente funzione repressiva e preventiva.
Nozione e fondamento dogmatico della confisca per equivalente
La confisca per equivalente, introdotta nell'ordinamento italiano quale strumento di recupero patrimoniale nei confronti dei proventi illeciti, costituisce una misura di sicurezza patrimoniale di natura sanzionatoria, diretta non già al bene in sé, ma al valore economico del profitto derivante dal reato.
Essa realizza, in chiave sistematica, il principio del ne bis lucrum ex delicto, secondo cui nessuno può conservare il vantaggio economico di un illecito penale. Tale misura, disciplinata dapprima dagli artt. 240 c.p. e 322-ter c.p. e poi estesa ai reati tributari dal D.Lgs. 74/2000, ha assunto nel tempo una funzione eminentemente retributiva e dissuasiva, collocandosi a metà strada tra la sanzione e la prevenzione.
La sua giustificazione si rinviene nella necessità di neutralizzare l'arricchimento indebito, indipendentemente dalla natura del bene colpito, sicché ogni limitazione di carattere civilistico o fiscale trova in essa un limite strutturale.
Inquadramento nazionale e sistemico
Nel panorama giuridico italiano, la "prima casa" ha progressivamente assunto una connotazione quasi sacrale, frutto di una legislazione fiscale e sociale che l'ha posta al centro di una rete di protezioni contro l'esecuzione forzata e la tassazione eccessiva. L'art. 76 del D.P.R. 602/1973, nella parte in cui vieta l'espropriazione dell'unico immobile di residenza da parte dell'agente della riscossione, ha contribuito a consolidare l'idea, erronea sul piano sistematico, che tale bene sia sottratto a ogni forma di aggressione patrimoniale.
La giurisprudenza penale, tuttavia, ha sempre mostrato cautela nel trasporre meccanicamente tali tutele nell'ambito del processo penale, evidenziando la differente natura e finalità delle misure ablatorie. La sentenza in commento compie un passo ulteriore, affermando con nettezza che il limite di impignorabilità dell'unico immobile non può costituire un ostacolo all'azione del giudice penale, la cui potestà si fonda su principi autonomi rispetto alla logica esecutiva dell'Erario.
La Corte, in altri termini, riafferma la separazione ontologica tra l'esecuzione tributaria, che tutela il creditore pubblico, e la confisca penale, che tutela l'ordinamento nella sua pretesa punitiva.
Ricostruzione storica e dottrinale
La tensione tra tutela abitativa e funzione repressiva dello Stato non è nuova. Sin dagli anni Novanta, la dottrina penalistica ha discusso se la "prima casa" potesse dirsi sottratta alla confisca, invocando analogie con la disciplina civilistica della impignorabilità dei beni essenziali. Tuttavia, il progressivo consolidarsi di un diritto penale patrimoniale, orientato alla asset recovery, ha eroso tale impostazione.
Già la giurisprudenza formatasi in materia di reati contro la pubblica amministrazione aveva riconosciuto la legittimità della confisca per equivalente anche su beni destinati ad uso familiare, laddove essi rappresentassero la contropartita economica del vantaggio illecito. L'evoluzione è proseguita con l'ampliamento dell'ambito applicativo della confisca "allargata" ex art. 240-bis c.p., che ha reso evidente come la funzione preventiva della misura trascenda la qualificazione civilistica del bene colpito.
La decisione del 2025 si colloca in questa linea di continuità evolutiva, ma ne costituisce la più chiara affermazione in materia tributaria, segnando una cesura definitiva con le precedenti oscillazioni interpretative.
Il caso concreto
Il procedimento trae origine da un'indagine per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000), nella quale il Tribunale di Rovigo aveva disposto il sequestro preventivo per equivalente su una pluralità di beni nella disponibilità dell'indagato, tra cui un immobile cointestato con il coniuge e adibito a residenza familiare.
La difesa invocava la violazione dell'art. 76 D.P.R. 602/1973, sostenendo l'impossibilità di aggredire la "prima casa".
La Cassazione, con argomentazione sistematica e rigorosa, rigetta integralmente il ricorso, precisando che la ratio di tale norma è limitata al rapporto tra contribuente e agente della riscossione, non potendo essere invocata per paralizzare l'azione penale. La misura cautelare reale, sottolinea la Corte, non è finalizzata a soddisfare un credito ma a neutralizzare un vantaggio patrimoniale di origine illecita, e come tale non conosce le limitazioni proprie dell'esecuzione civile.
Il bene, in quanto espressivo del profitto del reato o del suo valore equivalente, può dunque essere legittimamente aggredito anche se destinato ad abitazione familiare.
Tutela del diritto all'abitazione e principio di proporzionalità
La decisione della Suprema Corte non ignora la valenza costituzionale del diritto all'abitazione, desumibile dagli artt. 2, 3 e 47 Cost., ma lo ricolloca entro i confini della proporzionalità e della legalità penale.
La tutela della casa come centro di vita personale e familiare non può tradursi in un'immunità patrimoniale che consenta al reo di beneficiare di un vantaggio economico frutto di condotte fraudolente. La Corte argomenta in chiave di bilanciamento: la protezione del bene "abitazione" deve cedere di fronte all'esigenza, costituzionalmente legittima, di assicurare l'effettività della repressione dei reati economici e la parità di trattamento tra cittadini onesti e contribuenti infedeli.
Ne risulta un modello di giustizia patrimoniale sostanzialmente conforme all'art. 2740 c.c., che pone il principio della responsabilità patrimoniale universale come cardine dell'ordinamento: il debitore, e a maggior ragione l'autore di un illecito penale, risponde con tutti i propri beni presenti e futuri, salvo che la legge disponga diversamente — e nel caso della confisca penale, tale eccezione non esiste.
Conclusioni
La sentenza n. 34484/2025 si impone come uno degli arresti più significativi della recente giurisprudenza penale in materia tributaria. Essa supera l'idea, tanto radicata quanto giuridicamente infondata, della "inviolabilità" della prima casa, riaffermando il primato della funzione punitiva e restitutoria dello Stato rispetto alla tutela patrimoniale del reo.
Con un'impostazione che unisce rigore dogmatico e sensibilità sistematica, la Corte riconduce la confisca per equivalente alla sua essenza di misura sanzionatoria reale, sganciandola dai limiti esecutivi propri dell'ordinamento tributario.
Ne emerge un principio di portata generale: nessun bene può fungere da scudo contro la pretesa punitiva dell'ordinamento, quando esso rappresenti il valore del profitto illecito.
In tal modo, la Cassazione restituisce coerenza al sistema delle garanzie, riaffermando che la legalità non si arresta sulla soglia della casa, ma penetra fin dentro le sue mura quando esse custodiscano l'ombra di un illecito economico.
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